Può essere risarcito il danno fisico subito durante un’attività sportiva non agonistica?
La vicenda ha inizio quando il ricorrente pativa delle lesioni al setto nasale presso la palestra in cui frequentava delle lezioni di Ju Jitsu.
Nel dettaglio, l’atleta prestava la propria disponibilità a fare da “avversario” di un altro sportivo, che in quel momento stava affrontando l’esame per conseguire la “cintura nera”.
Quel particolare contesto richiedeva altre 3 persone per svolgere il ruolo di “sagoma umana” contro cui l’esaminando avrebbe dovuto misurarsi.
Il ruolo venne ricoperto da tre atleti, tra cui il ricorrente, il quale tuttavia nel corso della prova veniva colpito al volto e subiva la deviazione del setto nasale.
Il ragazzo citava in giudizio l’esaminando, il quale, a sua volta, chiamava in causa la propria compagnia assicuratrice.
A fondamento della richiesta risarcitoria vi è l’art. 2043 c.c., secondo cui “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
I giudici rigettavano la domanda di risarcimento sia in primo grado che in appello, sulla base del principio di diritto secondo cui “l’attività agonistica implica l’accettazione del rischio ad essa inerente da parte di coloro che vi partecipano, per cui i danni da essi eventualmente sofferti, rientranti nell’alea normale, ricadono sugli stessi” [1].
In Cassazione lo sportivo contesta la violazione dell’art. 2043 c.c., sopra riportato, e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio: il principio di diritto menzionato dai giudici fa espresso riferimento all’attività agonistica, dunque agli incontri sportivi veri e propri o, al limite, ad un’attività sportiva nel senso stretto del termine.
E nel caso di specie l’incidente era occorso durante un esame per il conseguimento di un titolo, in cui la parte lesa era stata chiamata a svolgere il ruolo di “sagoma umana”.
Ci si troverebbe, in altri termini, fuori dalla concezione di attività sportiva o di competizione agonistica e dunque non potrebbe trovare applicazione la regola che pone l’accettazione del rischio come fondamento per escludere il risarcimento.
Per la Corte il ricorso non può essere accolto: la regola sopraindicata è valida sia nel caso in cui l’attività sportiva venga svolta in forma agonistica, sia che si tratti di un allenamento o anche un esame sportivo, atteso che le regole sono in ogni caso le medesime.
In casi di questo genere, la risarcibilità del danno è strettamente legata al grado di violazione della regola cautelare che impone una condotta adeguata al contesto (sportivo, nello specifico).
La valutazione della colpa potrebbe al limite avere una qualche rilevanza ai fini dell’accertamento della responsabilità: non è in altri termini corretto sostenere in via generica che l’atleta accetta ogni rischio e quindi non può essere in ogni caso risarcito, poiché è implicita la non accettazione di condotte dolose o connotate da colpa grave.
È pertanto opportuno effettuare una valutazione circa la qualità dell’atleta, se un dilettante o un professionista, dove al secondo sarà richiesta un’attenzione maggiore rispetto al primo, che per definizione è meno esperto e meno capace di moderare la propria condotta ai dettami del gioco.
A nulla rileva invece la natura dell’attività svolta: che si tratti di una competizione, di un allenamento o di una prova di esame è del tutto ininfluente poiché le regole da applicarsi ai fini della determinazione del grado di colpa rimangono le medesime.
Atteso che l’unico motivo di ricorso è basato sulla distinzione tra attività sportiva in senso stretto ed esame sportivo, esso non potrà essere accolto in quanto non incide in alcun modo sulla valutazione della colpa rispetto alla regola cautelare violata. [2]
[1] Cass. Civ. n. 1564/1997; Cass. Civ. n. 20597/2004.
[2] Cass. Civ. sez. VI, ord. n. 35602 del 19/11/2021.