Il datore di lavoro può spiarti con un falso profilo Facebook.

Non è illegittima la condotta del datore di lavoro che licenzia il dipendente per giusta causa sulla base di quanto desunto da un profilo fake di Facebook creato ad hoc.

Con la sentenza n. 10955 del 27/5/2015, la Cassazione rileva come “La condotta dell’azienda che, per accertare la commissione di un presunto comportamento illecito, crea un falso profilo su un social network, contatta il dipendente sospettato e lo induce ad una conversazione virtuale in orario e in luogo di lavoro, non è sussumibile fra quelle disciplinate dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, e rispetta i diritti di libertà e dignità dei lavoratori nonché i principi di buona fede e correttezza.

La vicenda ha origine nel 2012, anno in cui il dipendente di una s.r.l. veniva licenziato per giusta causa in seguito a ripetuti assenteismi ingiustificati. Il Tribunale di Lanciano dichiarava illegittimo il licenziamento mentre la Corte di Appello dell’Aquila rigettava l’impugnativa dello stesso, dandogli torto.

Alla base della decisione dei Giudici di secondo grado la deposizione del responsabile del personale della ditta, il quale aveva creato un falso profilo di donna su Facebook e si era intrattenuto in più occasioni in conversazioni con il dipendente durante l’orario di lavoro.

La Corte ritenne che tale condotta da parte dell’azienda non violasse la allora vigente formulazione dell’art. 4 – L. 300/1970 in materia di controllo a distanza dell’attività del lavoratore, atteso che il sistema adottato nel caso concreto mancava dei connotati di continuità, anelasticità, invasività e compressione dell’autonomia del dipendente.

Lo stesso dipendente impugna la pronuncia in Cassazione tramite ricorso che viene rigettato.

Come già appurato dalla Corte di Appello, il responsabile delle risorse umane, una volta ottenuta l’autorizzazione dei vertici aziendali a procedere in tal senso, aveva creato su Facebook il suddetto profilo fake e aveva chattato ripetute volte con il dipendente.

Questi si era dunque concesso al dialogo in orari compatibili con quelli lavorativi e da posizioni geolocalizzate tramite lo stesso social network compatibili con l’area in cui ha sede lo stabilimento della ditta.

E neppure si trattava della prima occasione di contestazione in quanto lo stesso si era reso protagonista di un episodio in cui, allontanatosi dalla sua postazione per una telefonata privata di circa 15 minuti, aveva mancato di intervenire su una pressa bloccata da una lamiera incastrata tra i meccanismi, e nel corso della stessa giornata era stato rinvenuto nel suo armadietto un iPad acceso e collegato alla rete elettrica.

La legge riconosce una certa tutela alla riservatezza del lavoratore, anche con riguardo ai “controlli difensivi”, ovvero quelli volti ad accertare condotte illecite del dipendente con riferimento all’esatto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro e non la tutela di beni estranei allo stesso rapporto, nell’eventualità in cui essi vengano espletati con modalità tali da richiedere accordi con il Sindacato o l’Ispettorato del Lavoro.

Ciò non vale qualora il controllo intenda tutelare beni del patrimonio aziendale o impedire il perpetrarsi di comportamenti illeciti e non limitarsi a verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni aziendali: ne costituisce un esempio il ricorso ad investigatori privati finalizzato ad accertare utilizzi impropri dei permessi ex Legge 104. [1]

Ciò posto, ne deriva il principio della tendenziale ammissibilità dei controlli difensivi occulti, fermo restando che tali attività vanno espletate tramite modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti.

A detta della Cassazione, il caso di specie è rispettoso di questi limiti, in quanto il datore di lavoro ha portato avanti una procedura di controllo non indirizzata verso la vera e propria attività lavorativa del dipendente ma verso l’eventuale perpetrarsi di comportamenti illeciti, poi di fatto verificatisi, sul presupposto che già in precedenza lo stesso si era reso protagonista di episodi analoghi.

Legittimo è quindi l’episodio contestato, trattandosi di un controllo operato ex post, sollecitato da quanto accaduto in precedenza, e finalizzato a riscontrare e sanzionare un comportamento idoneo a ledere il patrimonio aziendale.

Il ricorso viene quindi rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese di lite.

[1] Legge n. 104 del 5/2/1992: “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.”

[2] Cass. Civ., Sez. Lav., Sent. n. 10955 del 27/5/2015